sabato 28 giugno 2014

lo scoppio della Grande Guerra

Tra un mese esatto la memoria del centenario dello scoppio della prima guerra mondiale acquisterà spazio e parola nei media e nelle riflessioni di rito affidate a storici e studiosi. Da un'opera appena pubblicata, Una mattina a Sarajevo, Roberto Saviano trae già spunto per introdurre il gesto,  deciso solo nei giorni immediatamente precedenti la visita di Francesco Ferdinando e non lungamente premeditato come un tempo si riteneva, che sconvolse proprio cento anni fa l'Europa e il mondo. Entrare nella storia riserva sempre interessanti sorprese.




di Roberto Saviano


Fu il pretesto, la miccia che incendiò la secca prateria europea. L'inizio simbolico, la scusa: non c'è libro di scuola che non ricordi così l'attentato a Sarajevo del 1914. Quel giorno è diventato l'archetipo dei pretesti. A considerarlo così, un pretesto, ci si dimentica di come andarono le cose. Pochi ricordano il nome dell'uomo che sparò, né come andò quell'attentato perpetrato tra errori ridicoli, scene persino comiche e coincidenze inaspettate. L'attentato fu opera di un ragazzino di vent'anni, fanatico, pieno di letture e di sogni nazionalisti.

Dai suoi due spari, come conseguenza, discesero trenta milioni di morti macellati nel più grande conflitto armato cui il mondo avesse mai assistito. E tutto nacque in serate passate in stanza tra amici, in pomeriggi pigri con mani dietro la nuca e occhi a fissare il soffitto, senza nemmeno i soldi per il tabacco e il vino. La storia è raccontata in Una mattina a Sarajevo di David James Smith, appena pubblicato dalla LEG, piccola, coraggiosa casa editrice goriziana. Smith racconta che negli anni precedenti all'attentato nacque un'organizzazione politico-rivoluzionaria denominata Mlada Bosna (Giovane Bosnia), che aveva come obiettivo la liberazione dall'Impero austro-ungarico. Uno dei suoi membri, il carpentiere musulmano Mehmed Mehmedbasic, aveva progettato di uccidere il generale Oskar Potiorek, governatore di Bosnia ed Erzegovina, ma quando fu annunciata l'imminente visita a Sarajevo dell'erede al trono d'Austria, il suo compagno Danilo Ilic lo convinse a cambiare bersaglio: Francesco Ferdinando sarebbe stato una vittima di maggior valore. Per raggiungere un obiettivo così alto però bisognava trovare armi e uomini. Ilic reclutò allora il suo compagno quasi ventenne di stanza, Gavrilo "Gavro" Princip, che a sua volta chiamò Nedeljko (Nedjo) Cabrinovic, operaio anarchico 19enne, e un altro amico di letture, Trifko Grabez, studente diciottenne con il sogno ossessivo di vivere in una nazione slava a cui avrebbe immolato il suo sangue.

Il legame tra loro? I libri che si scambiavano, l'odio per l'aquila asburgica, la voglia di vedere uno stato slavo indipendente e un generica inquietudine al pantano politico sociale che vedevano. Le bombe e le pistole vennero fornite da varie società segrete che, come la Mlada Bosna, covavano odio nei confronti degli Asburgo ma non avevano alcun progetto vero di riforma sociale né di insurrezione: volevano sostituire gli uomini voluti dagli Asburgo ai vertici delle istituzioni con i loro. Seppero quindi sfruttare la vampata di rabbia e temerarietà di questi studentelli e operai.

Il 28 maggio, Gavro, Nedjo e Trifko partirono da Belgrado con le loro armi per Sarajevo, dove, dopo un viaggio difficile e rischioso, trovarono ad aspettarli altri compagni che nel frattempo si erano uniti al gruppo complottista: Vaso e Cvjetko, studenti rispettivamente di diciassette e sedici anni. Il 27 giugno, fu Danilo a dare disposizioni: consegnò una bomba e una pistola ciascuno a Vaso e Cvjetko e, basandosi sull'itinerario previsto per la sfilata imperiale, assegnò a entrambi una postazione sul lungofiume. Verso sera incontrò Mehmedbasic al caffè Mostar: diede anche a lui una bomba e le istruzioni necessarie. Quella
stessa sera Gavrilo era a una festa di studenti ma non si divertì, raccontarono i testimoni, assorto nei suoi pensieri. Non dava confidenza a nessuno, si isolava.

La mattina del 28 giugno Nedjo, Trifko e Gavrilo si incontrarono con Danilo alla pasticceria Vlajnic, all'angolo del lungofiume Appel, come da programma. Qui i ragazzi ricevettero il cianuro: dal principio, infatti, era stato chiaro che, attentato riuscito o meno, il suicidio sarebbe stato l'ultimo gesto dei congiurati, in modo da proteggere tutti i complici e le organizzazioni coinvolte. Nedjo, con la sua bomba in tasca, fece un gesto tenero, a dimostrazione di come fossero tutti dei ragazzini, andò in uno studio fotografico e si assicurò che gli scatti realizzati fossero poi spediti alla nonna, alla sorella e agli amici di Belgrado, Zagabria e Trieste. Si diresse subito dopo verso la postazione assegnatagli, tra la sponda austroungherese del fiume e il ponte, in un punto dove sperava di poter uccidere l'arciduca senza ferire nessuno tra la folla. Alle 10.15 circa il corteo di automobili imperiale passò davanti a Mehmedbasic ma questi, bloccato dal panico, nemmeno provò a fare qualcosa. A quel punto fu Nedjo a lanciare una bomba, che però mancò la vettura dell'arciduca ferendo gli occupanti di quella successiva.

Subito dopo aver lanciato, Nedjo ingoiò il cianuro e si gettò nel fiume, ma il veleno si era deteriorato e gli avrebbe causato in seguito solo qualche scarica di diarrea, ed essendo in quel punto l'acqua del fiume bassissima, si bagnò solo fino al ginocchio, sopravvisse comicamente a entrambi i tentativi di suicidio e fu arrestato. Incredibilmente la cerimonia non fu annullata, le misure di sicurezza dell'epoca erano l'esatto contrario di quelle di oggi.

Dopo la bomba, l'arciduca mantenne i suoi impegni, l'auto degli eredi al trono proseguì quindi verso il Municipio per un incontro con il sindaco di Sarajevo. L'unica precauzione che la polizia asburgica e la scorta dell'arciduca presero fu di deviare il percorso del corteo. E fu proprio questa decisione ad essere fatale. Gavrilo, dopo aver inizialmente pensato che Nedjo avesse avuto successo, comprese invece che l'arciduca era ancora vivo e si portò nei pressi del Ponte Latino, dove stava per passare la vettura imperiale. Qui avvenne però qualcosa di imprevisto: il generale Potiorek capì che il corteo stava erroneamente percorrendo l'itinerario originario e quindi fermò l'auto e chiese all'autista di manovrare per continuare attraverso il lungofiume. Per compiere questa manovra, la vettura si fermò proprio davanti a Gavrilo che incredulo di avere dinanzi a sé gli eredi Asburgo estrasse subito la Browning di fabbricazione belga che aveva in tasca e sparò due colpì: il primo su Francesco Ferdinando, centrato alla spina dorsale; il secondo (destinato a Potiorek, secondo quanto disse poi Gavrilo al processo) sull'arciduchessa Sofia.

Subito dopo aver sparato ingurgitò il cianuro, ma anche la sua dose era deteriorata. Così cercò di spararsi con la pistola, ma fu bloccato dai presenti, che lo tennero fermo a calci e pugni fino all'arrivo della polizia.
L'assassinio, tutt'altro che inevitabile, era riuscito: alle 11.30 le campane di tutte le confessioni religiose di Sarajevo suonavano all'unisono annunciando la morte di Francesco Ferdinando e di Sofia, eredi al trono austroungarico. L'Austria presenterà un mese esatto dopo l'attentato dichiarazione di guerra alla Serbia. Al termine del processo, Gavrilo non chiese perdono, ma concluse il suo intervento con queste parole: "Noi amavamo il nostro popolo". Gli fu risparmiata la pena capitale per via della giovane età, così come prevedeva la legge. Venne condannato a vent'anni di lavori forzati, con la pena suppletiva di un giorno di isolamento in una cella buia ogni 28 giugno e un giorno di digiuno al mese. Fu rinchiuso nel carcere ceco di Terezín, dove visse in condizioni pessime fino alla sua morte, sopraggiunta per tubercolosi ossea il 28 aprile 1918. Pochi mesi dopo la sua morte si concluse anche il grande conflitto mondiale scatenato dal suo gesto, che aveva messo in ginocchio e ridisegnato l'Europa. Gavrilo Princip fu considerato un eroe da alcuni, un fanatico sbandato da altri, un ingenuo perché aveva ucciso proprio Francesco Ferdinando che, a differenza di suo zio Francesco Giuseppe, aveva in programma di concedere maggiore autonomia alla Serbia e ai popoli slavi in genere.

È strano scoprire che tutto nacque dall'inadeguatezza di ragazzi poco più che adolescenti, che amavano la lettura e sognavano una società più giusta. Dopo quell'attentato molti giovani si arruolarono per andare a combattere in trincea, a cercare la fine gloriosa, in nome delle rispettive patrie. In realtà trovarono solo orrore, pidocchi, fango e crudeltà. Nessuna redenzione dal male, nessuna vita vera. Princip non generò nessun mondo migliore.



lunedì 2 giugno 2014

viva la repubblica

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
ART 1 della Costituzione Italiana
*
La Repubblica, una e indivisibile.
ART 5 della Costituzione Italiana
*
La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.
ART 12 della Costituzione Italiana


La  forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale (1) (2)
ART. 139 della Costituzione Italiana

Note

(1) La Corte Costituzionale [v. 134] ha esplicitamente individuato nei diritti inviolabili della persona umana [v. 2] dei limiti assoluti al potere di revisione costituzionale: i diritti fondamentali dell'uomo sono soltanto riconosciuti e non creati dalla Costituzione, preesistono, cioè, all'ordinamento e non possono essere modificati dal legislatore costituzionale. La loro inviolabilità (v. 2) è affermata, quindi, anche nei confronti del Parlamento, cioè dell'organo che più di ogni altro rappresenta la volontà popolare: il mito dell'onnipotenza del legislatore, nato con la Rivoluzione francese del 1789, non trova, dunque, più cittadinanza negli Stati contemporanei.
(2) Sempre la Corte ha solennemente affermato, nella sentenza n. 1146 del 1988, che la Costituzione contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati da leggi di revisione, ricavandone come conseguenza l'assoggettabilità di tali leggi al suo controllo. Tra questi principi vi sarebbero quelli di eguaglianza (v. 3) e di solidarietà (v. 2), la tutela del lavoro (v. 4) e l'unità e indivisibilità della Repubblica (v. 5).


La Costituzione è il fondamento della Repubblica. Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal governo e dal Parlamento, se è manomessa dai partiti verrà a mancare il terreno sodo sul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà.
Luigi Sturzo, in un discorso al Senato della Repubblica, 27 giugno 1957