“Discutiamo e ragioniamo, ma nella consapevolezza che l’unità del paese uscita dal Risorgimento con i suoi ulteriori sviluppi è l’unica storia che abbiamo, da cui non possiamo prescindere e da cui dobbiamo in ogni caso partire: certo con gli occhi bene aperti ai problemi della difficile unità italiana”
Massimo L. Salvadori, storico
Dalla seconda metà del XIX secolo la pressione demografica differenziale, dovuta congiuntamente al processo definito “transizione” e ai profondi cambiamenti politici di fine secolo, si è manifestata con un’inversione dei flussi migratori, portando ingenti quantità di persone dei paesi giovani e poveri in via di sviluppo nei paesi anziani e ricchi sviluppati dell’Europa, dell’America e dell’Asia.
Questi flussi di nuova direzione sembrano destinati a perdurare almeno fino alla metà del XXI secolo, favoriti dal progressivo invecchiamento demografico dei paesi sviluppati e dall’elevato tasso di crescita degli altri paesi.
Negli ultimi anni, soprattutto
dopo la crisi del 2008, a fronte di un aumento delle immigrazioni, si è contemporaneamente registrato nel nostro Paese un nuovo significativo processo
emigratorio con direzione sia europea che extraeuropea, soprattutto da parte di una
professionalità qualificata che non trova sbocchi lavorativi in Italia e nel
Sud in particolare.
Questo fenomeno comincia ad
assumere dimensioni preoccupanti anche perché riguarda con prevalenza la fascia
della popolazione tra i 20-40 anni, la
cui prospettiva di permanenza all’estero non è ancora possibile prevedere né
misurare.
Si calcola che oltre 100.000 giovani italiani- spesso laureati- lasciano il Paese ogni anno, senza avere al momento prospettive di ritorno. Secondo le stime di Confindustria la fuga dei giovani all'estero costa all'Italia un punto di Pil all'anno, valutato in 14 miliardi di euro, in perdita di capitale umano. In sette anni il fenomeno ha subito un'accelerazione impressionante: si è passati dai 21 mila emigrati under 40 del 2008 ai 51mila del 2015. Il Csc tiene in considerazione che la spesa familiare per la crescita e l'educazione di un figlio, dalla nascita ai 25 anni, può essere stimata attorno ai 165 mila euro: è come se l'Italia, con l'emigrazione dei suoi giovani, in questi anni avesse perso 42,8 miliardi di euro di "investimenti in capitale umano". A questi sprechi va aggiunta la perdita associata alla spesa sostenuta dallo Stato per la formazione di quei giovani che hanno lasciato il paese: 5,6 miliardi se si considera la spesa media per studente dalla scuola primaria fino all'università. Nel solo 2015, per intendersi, 14 miliardi nel 2015.
Contemporaneamente in Italia è aumentato in modo veloce e quantitativamente
preoccupante l’afflusso di popolazioni in fuga dai paesi africani ed asiatici.
Sul piano demografico, le migrazioni fanno diminuire la consistenza della popolazione del luogo di partenza in misura pari al flusso di uscita e fanno aumentare corrispondentemente la consistenza della popolazione del luogo (o dei luoghi) di arrivo. Quale effetto derivato, si produce un cambiamento della struttura per sesso ed età delle due (o più) popolazioni: tra gli emigranti prevalgono i maschi in età produttiva (15-50 anni), il più spesso celibi. Si abbassa, di conseguenza, il rapporto tra maschi e femmine (rapporto di mascolinità) nella popolazione di origine, così come il peso percentuale delle classi di età centrali. L’inverso avviene nella popolazione di arrivo. Ulteriori conseguenze si osservano nei riguardi della natalità, della mortalità e della nuzialità. Una misura dei movimenti migratori è data dai tassi di immigrazione ed emigrazione e dalla migrazione netta. Il tasso (o quoziente) di immigrazione è dato dal rapporto tra il numero di immigrati in un dato territorio, in un certo intervallo di tempo, e la consistenza media della popolazione del territorio nell’ intervallo considerato. Analogamente vale la definizione di tasso di emigrazione. La migrazione netta, invece, è la misura assoluta del movimento migratorio ed è data dalla differenza tra il numero degli immigrati e il numero degli emigrati, fissato il territorio e il periodo di tempo.
Tutti gli studi del fenomeno migratorio contemporaneo ( tra cui Mauro Reginato, Storia digitale Zanichelli,Colonie, imperi e migrazioni di Giuseppe Burgio) sottolineano che i movimenti migratori non sono soltanto eventi spesso drammatici dei giorni attuali e non hanno avuto sempre come protagoniste le popolazioni di paesi in conflitto o in estrema povertà e sofferenza, come accade oggi per le masse di disperati che cercano la salvezza imbarcandosi su un mezzo di fortuna per raggiungere le coste europee.
Nel periodo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si ebbe infatti un profondo movimento in uscita dall’ Europa e diretto verso le Americhe, l’Australia e l’Africa meridionale. Il grande esodo europeo interessò più di cinquanta milioni di soggetti, come la mappa sottostante evidenzia differenziando le aree coinvolte.
Le cause di quel movimento migratorio ebbero caratteri esogeni ed endogeni.
L'Italia, con particolare presenza del Mezzogiorno, fu tra i Paesi maggiormente interessati dal processo.
Tra il 1861 e il 1985 le statistiche parlano di
29.036.000 italiani emigrati all’estero, di cui 22.253.000 uomini e 6.780.000
donne.
Ne sono rientrati circa 10.275.000, con un saldo migratorio di
18.761.000 unità.
Oggi vivono all’estero quasi cinque milioni di cittadini italiani e oltre 60 milioni di oriundi.
In Sicilia
L’emigrazione dalla zona ionico-etnea, quasi irrilevante
fino al 1875, presentò un aumento
significativo e costante dal 1890: 60 partenze nel primo triennio, quasi 100
l’anno fino al 1898, per toccare le 2500 unità annuali con l’arrivo del nuovo
secolo. Un autentico fiume umano lascia
Piedimonte, Fiumefreddo, Linguaglossa, Calatabiano, Mascali, Giarre,
Randazzo, Riposto e già nel 1911 la popolazione dell’area registra il primo
calo dalla nascita del Regno. Dalla fine
dell’Ottocento da Siracusa si poteva
raggiungere Messina utilizzando la linea
ferroviaria che s’inerpicava per il litorale ionico. Il porto di Messina,
utilizzato fino al 1904 per servire gli scali di Napoli e Palermo, ottenne in
seguito la sua linea transoceanica diretta grazie alla compagnia “La Veloce”.
Così gli emigranti della costa, dopo aver raggiunto con i carretti il più
vicino scalo ferroviario, caricavano sogni e bagagli con minore difficoltà
sulla prima nave in partenza dallo stretto.
Il lavoro nelle miniere, nell’edilizia, nella costruzione
della rete ferroviaria, nelle immense distese agricole americane e nelle
piantagioni australiane si presentava
come l’occasione per un rapido guadagno che avrebbe permesso di saldare i debiti
in paese, comprare il fondo espropriato, pensare alla casa, ad un nuovo pezzo
di terra, alla dote delle figlie.
L’isola, fanalino di coda nel registro nazionale delle partenze di fine
Ottocento, passò così decisamente in testa: solo nel 1906 partirono
dalla Sicilia 120.000 persone, nel 1913 più
di 20.000 lasciarono la provincia di Catania, 146.000 la Sicilia: è il picco
della “grande emigrazione”.