lunedì 21 luglio 2014

La riforma del Senato


 Vediamo di conoscere meglio il progetto di riforma del Senato al voto in questi giorni in Parlamento





Il Senato cambia radicalmente: meno senatori (100 invece di 315), non più eletti dai cittadini ma dai Consigli regionali, con meno poteri nell'esame delle leggi. E' cominciata la settimana che, secondo il premier Matteo Renzi, sarà decisiva per la riforma del Senato. Da oggi si vota a Palazzo Madama e a rallentare l'iter del disegno di legge ci sono ben 7800 emendamenti, dei quali 5900 presentati da Sel. Renzi punta ad ottenere il primo dei quattro via libera parlamentari alla riforma prima delle vacanze parlamentari, che iniziano il 10 agosto.

Il testo di riforma, rimaneggiato più volte in commissione Affari costituzionali negli ultimi tre mesi, può contare sul sostegno della maggioranza di governo e di Forza Italia, ma all'interno dello schieramento bipartisan - che ha già permesso alla Camera di votare in prima lettura la legge elettorale - ci sono diversi "dissidenti" che finora hanno rallentato il percorso e potrebbero saldarsi all'opposizione su alcuni emendamenti.

Il governo è fiducioso però che sui punti qualificanti del provvedimento l'intesa con il partito di Silvio Berlusconi tenga.
Alla riforma del Senato è legata quella della legge elettorale, che dovrebbe approdare da settembre a Palazzo Madama per la seconda lettura. Renzi non ha escluso di cercare un'intesa su nuove modalità di voto anche con il Movimento 5 stelle, ma ha subordinato la ripresa delle trattative - dopo due incontri con la delegazione grillina in diretta streaming - al via libera del Senato sulla modifica della Costituzione.

RIFORMA COSTITUZIONALE, I TESTI A CONFRONTO

Ecco i punti principali della riforma costituzionale, il cosiddetto ddl Boschi.

Camera. Sarà l'unica Assemblea legislativa e anche l'unica a votare la fiducia al governo. I deputati rimangono 630.

La composizione del nuovo Senato. Continuerà a chiamarsi Senato della Repubblica, ma sarà composto da 95 eletti dai Consigli Regionali, più cinque nominati dal Capo dello Stato e che resteranno in carica per 7 anni. I senatori saranno dunque così ripartiti: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci, 5 personalità illustri nominate dal presidente della Repubblica. Questi ultimi andranno quindi a sostituire i senatori a vita e saranno scelti con gli stessi criteri: "Cittadini che hanno illustrato la patria per i loro altissimi meriti".

Quali sono i poteri del nuovo Senato? Palazzo Madama avrà molti meno poteri e verrà superato il bicameralismo perfetto: innanzitutto non potrà più votare la fiducia ai governi in carica, mentre la sua funzione principale sarà quella di "raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica", che poi sarebbero regioni e comuni. Potere di voto vero e proprio invece il Senato lo conserverà solo per riforme costituzionali, leggi costituzionali, leggi elettorali degli enti locali e ratifiche dei trattati internazionali. Potrà chiedere alla Camera la modifica delle leggi ordinarie, ma Montecitorio potrà non tener conto della richiesta.

Il ruolo consultivo del Senato. Il Senato avrà però la possibilità di esprimere proposte di modifica anche sulle leggi che esulano dalle sue competenze. E sarà costretto a farlo in tempi strettissimi: gli emendamenti vanno consegnati entro 30 giorni, la legge tornerà alla Camera che avrà 20 giorni di tempo per decidere se accogliere o meno i suggerimenti. Più complessa la situazione per quanto riguarda le leggi che riguardano i poteri delle regioni e degli enti locali, sui quali il Senato conserva maggiori poteri. In questo caso, per respingere le modifiche la Camera dovrà esprimersi con la maggioranza assoluta dei suoi componenti. Il Senato potrà votare anche la legge di bilancio, le proposte di modifica vanno consegnate entro 15 giorni e comunque l'ultima parola spetta alla Camera.

I senatori-consiglieri. I 95 senatori saranno ripartiti tra le regioni sulla base del peso demografico di queste ultime. I Consigli Regionali eleggeranno con metodo proporzionale i senatori tra i propri componenti, per evitare che chi ha la maggioranza nella regione si accaparri tutti i seggi a disposizione. Come detto uno per ciascuna regione o provincia autonoma dovrà essere un sindaco. I senatori dunque non saranno più eletti direttamente dai cittadini; si tratterà invece di una elezione di secondo grado. Quale sarà lo stipendio dei senatori? I consiglieri regionali e i sindaci che verranno eletti al Senato non riceveranno nessuna indennità, il che dovrebbe portare allo Stato un risparmio di oltre mezzo miliardo di euro ogni anno.

Il nodo della discordia. Fi chiedeva di inserire che in ogni Consiglio regionale a ogni gruppo consiliare fosse "assegnato" un numero di senatori in base al loro peso. Su insistenza di Lega e Ncd è stata tolta questa rigidità che danneggiava i piccoli partiti.

Immunità. I nuovi senatori godranno delle stesse tutele dei deputati. Non potranno essere arrestati o sottoposti a intercettazione senza l'autorizzazione del Senato. Autorizzazione obbligatoria anche per processare un senatore per un reato d'opinione.

Titolo V. Sono riportate in capo allo Stato alcune competenze come l'energia, infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto. Su proposta del Governo, la Camera potrà approvare leggi nei campi di competenza delle Regioni, "quando lo richieda la tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse nazionale".

Presidente della Repubblica. Lo eleggeranno i 630 deputati e i 100 senatori (via i rappresentanti delle Regioni previsti oggi). Nei primi quattro scrutini servono i due terzi dei voti, nei successivi quattro i tre quinti; dal nono basta la maggioranza assoluta .

Referendum. Serviranno 800.000 firme. Dopo le prime 400.000 la Corte costituzionale darà un parere preventivo di ammissibilità. Potranno riguardare o intere leggi o una parte purché essa abbia un valore normativo autonomo.

Ddl iniziativa popolare. Salgono da 50.000 a 250.000 le firme necessarie per presentare un ddl di iniziativa popolare. Però i regolamenti della Camera dovranno indicare tempi precisi di esame, clausola che oggi non esiste. 

lunedì 7 luglio 2014

dalla lettera del presidente


Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scrive a Repubblica in occasione della commemorazione dei caduti del primo conflitto mondiale:

 "Il centenario del conflitto ’14-’18 vede insieme nella Ue i popoli che si combatterono sanguinosamente. Ma occorre evitare polemiche sulle colpe di allora. E trasmettere ai giovani una memoria critica di quella tragedia"



"(...) Nella spaventosa fornace bellica del primo conflitto mondiale i caduti italiani furono in tutto oltre seicentomila. E anche da storici rigorosi nello smontare mitizzazioni e forzature nello stesso assunto "liberatorio" dell'intervento italiano, è venuto - come da tutti deve oggi ancora venire - l'omaggio riconoscente e commosso al sacrificio di tanti, alle prove umili ed eroiche di senso del dovere e dell'onore nazionale che furono date da una moltitudine di persone semplici, di contadini poveri divenuti soldati.

E di certo non è risultata contraddittoria con il "ripudio" di principio della guerra, con la priorità - sancita in Costituzione - del valore della pace e della ricerca di soluzioni pacifiche alle controversie tra Stati e nazioni, la valorizzazione del fenomeno che così è stato descritto da Giuliano Procacci nella sua "Storia degli italiani": "Con la guerra vastissimi strati sociali, il cui mondo era stato sino allora circoscritto entro un orizzonte provinciale, venivano costretti per forza delle cose a prendere coscienza del loro destino comune e dell'esistenza di una collettività nazionale".

La prima guerra mondiale divenne "la prima grande esperienza collettiva del popolo italiano". L'Italia ne uscì non solo riunita - con il ricongiungimento di Trento e Trieste - entro i confini sognati dai patrioti del Risorgimento, ma cambiata moralmente perché forte di una nuova e più vasta consapevolezza del proprio essere nazione.

Potranno queste fondamentali acquisizioni storiche rivivere e trasmettersi alle generazioni più giovani attraverso un programma di attività già delineato in sede di governo per il centenario della prima guerra mondiale, di quella drammatica esperienza che, con sue motivazioni e suoi peculiari percorsi, l'Italia attraversò da non secondaria protagonista? Credo che sia uno sforzo da compiere..."


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domenica 6 luglio 2014

intervista a Garibaldi



 Roberto Testa intervista Giuseppe Garibaldi. Possibile?

Giudicate voi......



martedì 1 luglio 2014

l'anniversario a Sarajevo

 

Roberto Testa segnala

Quella statua che riapre la ferita di Sarajevo 

di ADRIANO SOFRI





Quella statua a Sarajevo che riapre le ferite della storia
La città dove cento anni fa si accese la Prima guerra mondiale si divide. I serbi disertano le celebrazioni ufficiali e onorano come un martire Gavrilo Princip: per l’attentatore di Francesco Ferdinando viene eretto un monumento

L’anniversario.
UN GIORNO ha messo in mostra, ma in vetrine separate e ostili, la ricapitolazione di un secolo, gonfia di solennità e di ridicolo. La Sarajevo bosniaca ha provato a rimettere assieme narrazioni opposte, invitando la Filarmonica di Vienna. Ed esponendo sui due lati dell’ex museo della Giovane Bosnia — Mlada Bosna , chiamata così per emulare la Giovane Italia mazziniana — il volto dello sparatore, Gavrilo Princip, e della vittima, l’arciduca Franz Ferdinand. Lo slogan neutro dice: L’angolo di strada che inaugurò il XX secolo, e il manifesto della celebrazione dice: Cent’anni di guerra, cent’anni di pace.

Molte cose restano fuori. C’erano, sul cemento del marciapiede davanti al museo, due impronte in memoria delle scarpe di Princip. I viaggiatori le misuravano sul proprio piede, una Cenerentola alla rovescia, scarpe grosse di contadino. Cancellata la reliquia, Princip, che fino alla dissoluzione della Yugoslavia era stato l’eroe irredentista degli slavi del sud, nella cosiddetta guerra civile è diventato la bandiera dei serbisti ed è stato ripudiato dai bosniaco-musulmani e dai croati. Ieri, nella serbo-bosniaca Sarajevo est gli si inaugurava una statua, e a Višegrad un mosaico “a grandezza naturale” lo riproduceva sulla facciata della Cinecittà “neomedievale” di Emir Kusturica.
È buffa anche, la storia della grandezza naturale. Gavrilo Princip era stato rifiutato da un battaglione di volontari serbi per la statura troppo bassa. La statua di ieri lo risarcisce: due metri. Il suo giudice, già sgomento per la sproporzione fra l’atto dei gruppettari di Sarajevo e la guerra mondiale, lo fu ancora di più di fronte a un ometto così piccolo e una conseguenza così enorme. Nella fittizia e vacillante Bosnia-Herzegovina di Dayton c’è tre di tutto, e anche tre programmi scolastici: negli uni Princip è un terrorista, nell’altro un idealista e un martire. Sono vere le due cose.
Sulla prima, basta ascoltare lui. Come pensavate di realizzare il vostro ideale? — gli chiederà il giudice. «Col terrore». E che vuol dire? «Vuol dire, in generale, uccidendo i personaggi di primo piano». Non fu condannato a morte perché gli mancavano quindici giorni alla maggiore età, che la legge imperiale fissava a vent’anni. Morì nel 1918 in galera: gli mancavano pochi mesi, e avrebbe saputo del crollo dell’impero asburgico. Sia lui che i suoi compagni di cospirazione erano stati schiacciati dalla smisuratezza dell’effetto. Vorrebbero tornare indietro, e non farlo più: se solo avessero immaginato. «Piuttosto, mi sarei seduto io stesso sulla mia bomba », disse il diciannovenne Èabrinoviæ. Il rumore che hanno fatto le loro rudimentali bombe a mano, le loro pistolettate di fortuna, li ha lasciati attoniti, assordati. Perfino il loro cianuro non andava oltre un mal di pancia. Erano giovani di un’estrema periferia, nutriti di letture infiammate — «Kropotkin per il fine, Mazzini per i mezzi», avrebbe rivendicato Princip — e dal culto della nobiltà dell’attentato e del suicidio, esaltati e imbranati: Princip stesso non aveva avuto un rapporto con una donna, e in quella sua verginità sarebbe morto.

Chi li ripudia oggi facendone solo degli assassini fa torto a loro e alla verità; ma fa altrettanto chi li esalta a costo di celebrare insieme a loro la conseguenza del loro atto e la sua prosecuzione fino ai nostri giorni e oltre. Chi li esalta oggi senza avere scarpe grosse e castità mortificate, e disponendo al contrario di potere, fama, ricchezza. Emir Kusturica, sarajevese, rinnegò la città assediata e falcidiata non per auspicare pace e convivenza, ma per passare dalla parte di Belgrado, delle sue autorità, delle sue risorse. Ieri si è fatto regista, con il premier serbo Aleksandar Vucic e della secessionista repubblica Srpska, Milorad Dodik, di una celebrazione dei cent’anni dal 28 giugno saraievese del 1914 che ribadiva l’inimicizia alla Sarajevo degli anni
‘90 e di oggi.
Višegrad, la città del ponte sulla Drina, era popolata per due terzi da bosniaci-musulmani (è una denominazione anagrafica, non necessariamente di religione) e oggi ne è svuotata. Là si è inaugurata la neocittà di Andricgrad: Ivo Andriæ era stato anche lui giovanissimo adepto della cospirazione nazionalista del ‘14, e aveva subito il carcere, poi era stato, da premio Nobel e da diplomatico, una personalità illustre della Yugoslavia: anche lui ora annesso alla esclusiva versione serbista, nonostante quel suo ponte di incontri e ferocie universali.
Quante frasi: la storia è maestra di vita; la morte è un maestro tedesco; la morte è un capomastro serbo — o di chiunque altri, all’occorrenza.
Si insegnò a lungo che un giovane nazionalista eroico o sprovveduto sparò due colpi di pistola e scoppiò la guerra mondiale. Poi si riparò spiegando che le guerre si procurano la scintilla che le fa esplodere, ma hanno cause profonde che le hanno covate. Bismarck era stato profeta già nel 1888: Se ci sarà un’altra guerra in Europa, verrà da qualche maledetta idiozia nei Balcani. La scintilla. È ora forse di dire anche il contrario: che cause profonde di odio, intolleranza, violenza, non smettono mai di scavare nel fondo, e che scintille minori possono avvalersene per produrre incendi insperati.
Ai nostri giorni una piccola guerra, anzi due, 200 mila morti più o meno, nella periferia balcanica dell’Europa, non hanno minacciato la serenità dell’Europa. Si ammazzassero pure fra di loro: si disse così dei Balcani, come della mafia. Attribuiremo senz’altro al progresso il fatto che la Sarajevo recidiva — la storia che torna sul luogo del suo delitto — dell’aprile 1992 abbia potuto bruciare per anni senza che l’Europa si lasciasse contagiare dal suo incendio? Il nostro manuale comune fa del Novecento un secolo abbreviato, che cominciò tardi nel giugno del 1914 e finì presto nel 1995 di Dayton, e al suo centro infierì una guerra unica e appena interrotta dal 1914 al 1945. Poi l’Europa occidentale e centrale ha capito la lezione e ha costruito un’unione fra i nemici giurati e spietati di ieri.
È una sistemazione in parte vera, del tutto consolante, e sancita da un distratto Nobel per la pace. Ma ne resta fuori appunto, solo dopo l’89, la tremenda guerra nella ex-Yugoslavia, poi il suo supplemento annunciato in Kosovo, e poi, alla periferia orientale, la Cecenia, la Georgia, e, sempre meno in periferia, l’Ucraina, e intanto l’europeismo federalista è accusato di essersi spinto troppo oltre, e viene tirato indietro verso nazionalismi e xenofobie. La storia conserva tenacemente certi suoi tic: e ieri, mentre a Sarajevo suonava la Filarmonica di Vienna, a Višegrad toccava a un ensemble russo. La musica è universale, il programma è quello ucraino, siriano. Gli storici hanno un triste vantaggio, che vengono dopo, e dunque possono ammonire a incendio avvenuto che le sue cause erano operanti e pressoché incontrollabili. Che cosa sia dell’Europa e del mondo di oggi, dell’Ucraina, della Siria, dell’Iraq, di chissà quale altro vulcano, è più difficile dire. Si scommette che la globalizzazione assicuri contro “la” guerra (che “le” guerre abbondino, lo vedono tutti), e invece la guerra l’ha inaugurata. Fra cento anni, litigheranno ancora i nostri posteri, o sapranno finalmente piangere e ridere assieme della nostra statura?