martedì 1 luglio 2014

l'anniversario a Sarajevo

 

Roberto Testa segnala

Quella statua che riapre la ferita di Sarajevo 

di ADRIANO SOFRI





Quella statua a Sarajevo che riapre le ferite della storia
La città dove cento anni fa si accese la Prima guerra mondiale si divide. I serbi disertano le celebrazioni ufficiali e onorano come un martire Gavrilo Princip: per l’attentatore di Francesco Ferdinando viene eretto un monumento

L’anniversario.
UN GIORNO ha messo in mostra, ma in vetrine separate e ostili, la ricapitolazione di un secolo, gonfia di solennità e di ridicolo. La Sarajevo bosniaca ha provato a rimettere assieme narrazioni opposte, invitando la Filarmonica di Vienna. Ed esponendo sui due lati dell’ex museo della Giovane Bosnia — Mlada Bosna , chiamata così per emulare la Giovane Italia mazziniana — il volto dello sparatore, Gavrilo Princip, e della vittima, l’arciduca Franz Ferdinand. Lo slogan neutro dice: L’angolo di strada che inaugurò il XX secolo, e il manifesto della celebrazione dice: Cent’anni di guerra, cent’anni di pace.

Molte cose restano fuori. C’erano, sul cemento del marciapiede davanti al museo, due impronte in memoria delle scarpe di Princip. I viaggiatori le misuravano sul proprio piede, una Cenerentola alla rovescia, scarpe grosse di contadino. Cancellata la reliquia, Princip, che fino alla dissoluzione della Yugoslavia era stato l’eroe irredentista degli slavi del sud, nella cosiddetta guerra civile è diventato la bandiera dei serbisti ed è stato ripudiato dai bosniaco-musulmani e dai croati. Ieri, nella serbo-bosniaca Sarajevo est gli si inaugurava una statua, e a Višegrad un mosaico “a grandezza naturale” lo riproduceva sulla facciata della Cinecittà “neomedievale” di Emir Kusturica.
È buffa anche, la storia della grandezza naturale. Gavrilo Princip era stato rifiutato da un battaglione di volontari serbi per la statura troppo bassa. La statua di ieri lo risarcisce: due metri. Il suo giudice, già sgomento per la sproporzione fra l’atto dei gruppettari di Sarajevo e la guerra mondiale, lo fu ancora di più di fronte a un ometto così piccolo e una conseguenza così enorme. Nella fittizia e vacillante Bosnia-Herzegovina di Dayton c’è tre di tutto, e anche tre programmi scolastici: negli uni Princip è un terrorista, nell’altro un idealista e un martire. Sono vere le due cose.
Sulla prima, basta ascoltare lui. Come pensavate di realizzare il vostro ideale? — gli chiederà il giudice. «Col terrore». E che vuol dire? «Vuol dire, in generale, uccidendo i personaggi di primo piano». Non fu condannato a morte perché gli mancavano quindici giorni alla maggiore età, che la legge imperiale fissava a vent’anni. Morì nel 1918 in galera: gli mancavano pochi mesi, e avrebbe saputo del crollo dell’impero asburgico. Sia lui che i suoi compagni di cospirazione erano stati schiacciati dalla smisuratezza dell’effetto. Vorrebbero tornare indietro, e non farlo più: se solo avessero immaginato. «Piuttosto, mi sarei seduto io stesso sulla mia bomba », disse il diciannovenne Èabrinoviæ. Il rumore che hanno fatto le loro rudimentali bombe a mano, le loro pistolettate di fortuna, li ha lasciati attoniti, assordati. Perfino il loro cianuro non andava oltre un mal di pancia. Erano giovani di un’estrema periferia, nutriti di letture infiammate — «Kropotkin per il fine, Mazzini per i mezzi», avrebbe rivendicato Princip — e dal culto della nobiltà dell’attentato e del suicidio, esaltati e imbranati: Princip stesso non aveva avuto un rapporto con una donna, e in quella sua verginità sarebbe morto.

Chi li ripudia oggi facendone solo degli assassini fa torto a loro e alla verità; ma fa altrettanto chi li esalta a costo di celebrare insieme a loro la conseguenza del loro atto e la sua prosecuzione fino ai nostri giorni e oltre. Chi li esalta oggi senza avere scarpe grosse e castità mortificate, e disponendo al contrario di potere, fama, ricchezza. Emir Kusturica, sarajevese, rinnegò la città assediata e falcidiata non per auspicare pace e convivenza, ma per passare dalla parte di Belgrado, delle sue autorità, delle sue risorse. Ieri si è fatto regista, con il premier serbo Aleksandar Vucic e della secessionista repubblica Srpska, Milorad Dodik, di una celebrazione dei cent’anni dal 28 giugno saraievese del 1914 che ribadiva l’inimicizia alla Sarajevo degli anni
‘90 e di oggi.
Višegrad, la città del ponte sulla Drina, era popolata per due terzi da bosniaci-musulmani (è una denominazione anagrafica, non necessariamente di religione) e oggi ne è svuotata. Là si è inaugurata la neocittà di Andricgrad: Ivo Andriæ era stato anche lui giovanissimo adepto della cospirazione nazionalista del ‘14, e aveva subito il carcere, poi era stato, da premio Nobel e da diplomatico, una personalità illustre della Yugoslavia: anche lui ora annesso alla esclusiva versione serbista, nonostante quel suo ponte di incontri e ferocie universali.
Quante frasi: la storia è maestra di vita; la morte è un maestro tedesco; la morte è un capomastro serbo — o di chiunque altri, all’occorrenza.
Si insegnò a lungo che un giovane nazionalista eroico o sprovveduto sparò due colpi di pistola e scoppiò la guerra mondiale. Poi si riparò spiegando che le guerre si procurano la scintilla che le fa esplodere, ma hanno cause profonde che le hanno covate. Bismarck era stato profeta già nel 1888: Se ci sarà un’altra guerra in Europa, verrà da qualche maledetta idiozia nei Balcani. La scintilla. È ora forse di dire anche il contrario: che cause profonde di odio, intolleranza, violenza, non smettono mai di scavare nel fondo, e che scintille minori possono avvalersene per produrre incendi insperati.
Ai nostri giorni una piccola guerra, anzi due, 200 mila morti più o meno, nella periferia balcanica dell’Europa, non hanno minacciato la serenità dell’Europa. Si ammazzassero pure fra di loro: si disse così dei Balcani, come della mafia. Attribuiremo senz’altro al progresso il fatto che la Sarajevo recidiva — la storia che torna sul luogo del suo delitto — dell’aprile 1992 abbia potuto bruciare per anni senza che l’Europa si lasciasse contagiare dal suo incendio? Il nostro manuale comune fa del Novecento un secolo abbreviato, che cominciò tardi nel giugno del 1914 e finì presto nel 1995 di Dayton, e al suo centro infierì una guerra unica e appena interrotta dal 1914 al 1945. Poi l’Europa occidentale e centrale ha capito la lezione e ha costruito un’unione fra i nemici giurati e spietati di ieri.
È una sistemazione in parte vera, del tutto consolante, e sancita da un distratto Nobel per la pace. Ma ne resta fuori appunto, solo dopo l’89, la tremenda guerra nella ex-Yugoslavia, poi il suo supplemento annunciato in Kosovo, e poi, alla periferia orientale, la Cecenia, la Georgia, e, sempre meno in periferia, l’Ucraina, e intanto l’europeismo federalista è accusato di essersi spinto troppo oltre, e viene tirato indietro verso nazionalismi e xenofobie. La storia conserva tenacemente certi suoi tic: e ieri, mentre a Sarajevo suonava la Filarmonica di Vienna, a Višegrad toccava a un ensemble russo. La musica è universale, il programma è quello ucraino, siriano. Gli storici hanno un triste vantaggio, che vengono dopo, e dunque possono ammonire a incendio avvenuto che le sue cause erano operanti e pressoché incontrollabili. Che cosa sia dell’Europa e del mondo di oggi, dell’Ucraina, della Siria, dell’Iraq, di chissà quale altro vulcano, è più difficile dire. Si scommette che la globalizzazione assicuri contro “la” guerra (che “le” guerre abbondino, lo vedono tutti), e invece la guerra l’ha inaugurata. Fra cento anni, litigheranno ancora i nostri posteri, o sapranno finalmente piangere e ridere assieme della nostra statura?

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