Sami e gli studenti del Liceo Leonardo al Centro Astalli di Catania |
Mi chiamo Sami, ho ventitré anni.
Quattro di questi li ho vissuti in carcere. Spaccio, questa era l’accusa. Ma io in vita mia non ho mai spacciato niente. L’unico errore che ho commesso è stato portare un po’ troppo fumo addosso. Mi hanno condannato a sei anni di reclusione, io non ne avevo nemmeno diciassette, ero un ragazzino "normale" che va incontro a conseguenze troppo gravi rispetto ad un’azione commessa. “Normale”, almeno così mi consideravo.
E’ una storia particolare la mia, sono quello che si può definire un “incrocio”. I miei genitori sono in Italia da trent’anni. Mia madre viene dall’Eritrea, faceva parte di un movimento di resistenza alla dittatura, aveva solo quattordici anni quando è scappata per rivendicare la sua libertà. Mio padre è etiope. Figlio del male, mi definiscono. Nato dall’unione di due paesi per anni in guerra tra di loro. Nel migliore dei casi, sono considerato semplicemente uno dei tanti “marocchini” che si incontrano in giro per Catania. Ho un fratello ed una sorella, la mia famiglia è splendida e non mi fa mancare nulla. Grazie a loro sono riuscito ad ottenere una modifica della pena e sono stato affidato in prova ai servizi sociali, da allora collaboro con il Centro Astalli. Da quando sono qui sono entrato a contatto con realtà atroci, ho guardato negli occhi ragazzi appena ventenni e ci ho trovato il vuoto, la distruzione che procura una vita senza speranze, senza aspettative. Ragazzi profondamente innamorati della propria terra, costretti a scappare per amore della vita, se così si può definire. Sono i cosiddetti “migranti per costrizione”. C’è un’enorme parte di Africa martoriata da guerre continue, laghi di sangue che non attirano l’attenzione solo perché le terre sono talmente povere da non consentire un business, veri e propri inferni in terra. Dittature sanguinose che reprimono le popolazioni con la più totale violenza, trattando gli esseri umani come fossero nulla. Queste sono le storie che mi raccontano qui, che ritrovo nei gesti schivi e negli occhi spaventati. Nelle menti segnate per sempre da dolori inimmaginabili. Qui facciamo il meglio che possiamo, diamo vitto e alloggio, alfabetizziamo ed aiutiamo i migranti ad avanzare le richieste per il loro asilo politico. Non è una cosa facile, affatto. Il più delle volte inserire in una comunità un immigrato è quasi impossibile. “Tornatevene al vostro paese”, ecco il pensiero cardine. E io sono sicuro che gran parte di queste persone ci sarebbero rimaste pure al loro paese, se avesse consentito loro di condurre una vita dignitosa. Perché non vai tu?, si potrebbe rispondere. Perché non provi sulla tua pelle le atrocità con cui bisogna, se si riesce, convivere? Non dureresti un giorno. Eppure sempre tutti lì, tutti pronti a puntare il dito e giudicare, perché in Italia si sta male e noi rubiamo il lavoro. Noi. Noi che ci basterebbe un pasto al giorno e la speranza per stare bene. Ma cibo al nostro paese ce n’è poco, e speranza ancora meno.
Io sono nato qui, mi sento italiano tanto quanto qualsiasi altro cittadino, ma nel corso della mia vita mi sono reso conto di come esistano due tipi di razzismo. Uno è quello per ignoranza, per ingenuità. Sono stato spesso chiamato “marocchino”, ma mi è bastato spiegare per vedere sparire dal volto di chi mi aveva chiamato così qualsiasi traccia di riserva nei miei confronti. Poi c’è il razzismo per scelta. Il più aberrante, il più perverso. Vedo ogni giorno gente che mi guarda con diffidenza e parla dietro le mani, che punta il dito e mi odia per il colore della mia pelle. Ma perché odiarmi? Mi odi per la mia povertà? Ah no, giusto. Mi odi perché noi immigrati siamo sempre delinquenti, rubiamo e uccidiamo, non è così? E’ per questo che vengo odiato, perché l’ignoranza arrogante delle persone porta a fare di tutta l’erba un fascio. Ma ho imparato a non curarmene, me l’ha insegnato mamma. Lei non riesce quasi a guardare la televisione, ogni volta che sente parlare di barconi carichi di eritrei che arrivano qui, quasi piange. Quando è partita dal nostro paese, faceva parte di un gruppo di ribelli formato da 180 persone, adesso ne sono sopravvissute solamente 18. E’ una sconfitta per lei sapere di aver lasciato per sempre la sua terra senza essere riuscita a cambiare le cose come avrebbe voluto. Però la speranza e la forza gliele leggo negli occhi, è una donna fortissima mia madre. La vedo forte ogni volta che ferma qualcuno come noi, un immigrato, per strada e parla con lui come se fosse suo fratello, il suo migliore amico. Chiede il nome, com’è arrivato qui e da dove viene. Poi sorride a tutti. Perché lei le conosce le loro storie, in fondo sono tutte simili alle sue. Sa cosa si prova a partire senza nulla addosso, a scappare via da un paese che ti schiaccia, che ti fa desiderare di morire la mattina appena apri gli occhi.
La gente pensa che lottare per quello in cui si crede sia inutile, tanto poi non cambia niente. Io non la vedo così. io credo che se bisogna aspettare che siano gli altri a fare qualcosa, potremo morire nell’attesa. Credo che bisogna guardare a se stessi, partire da se stessi. Una cosa che ho imparato da quando frequento il centro è che un giorno di volontariato a me non costa nulla, non faccio nulla di assurdo o esageratamente pesante, ma mi fa andare a letto con la sensazione di essere stato utile, di servire a qualcosa. Mi fa andare a letto con il sorriso e la voglia di rifarlo ancora.
Fa nascere in me una speranza, una speranza che ritrovo nei sorrisi dei volontari che lavorano con me, una speranza che cerchiamo tutti di trasmettere giorno per giorno a chi ormai non ne ha più.
ricostruzione a cura di Maria Pia Astuto
classe 4 H
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