venerdì 8 agosto 2014

Marcinelle,l'8 agosto di 58 anni fa



Negli anni Cinquanta sono italiani gran parte dei minatori negli impianti belgi. Ed è lì, a Saint-Charles del Charbonages du Bois-du-Cazier, che 58 anni fa muoiono 262 minatori: 136 italiani, 96 belgi, 14 polacchi, 5 greci, 5 tedeschi, 3 ungheresi, 2 russi, un inglese. Il nome della città dell'incidente, Marcinelle, entra nella memoria collettiva italiana più di Ribolla e di Morgnano, persino più del disastro del 1907 a Monongah in Virginia, dove morirono mille persone di cui 171 italiani arrivati dall'Abruzzo, dal Molise, dalla Calabria. Allora non c'erano i cinegiornali e nemmeno la radio a raccontare almeno l'emozione e il lutto. Quasi dimenticate sono anche le stragi più recenti nelle zolfatare siciliane, gironi infernali come Trabia, 20 agosto 1957, 23 morti, e Gessolungo, 13 febbraio 1958, quando  un'esplosione da grisou uccide 14 minatori e ne ferì 58.

Di quanto accade la mattina dell'8 agosto 1956 nei pozzi del Bois-du-Cazier di Marcinelle s'è invece scritto e visto molto. Dieci anni fa la Rai ha realizzato persino una miniserie con Claudio Amendola, Maria Grazia Cucinotta e Gioele Dix. Nel 2006 è uscito uno splendido libro di Paolo Di Stefano, "La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956" (Sellerio,13 euro, 8,99 euro in versione ebook) che raccoglie le testimonianze degli ultimi sopravvissuti e dei loro familiari. Leggerlo fa capire cosa vuol dire lavorare e vivere in condizioni degradate in un paese, il Belgio, che considera gli italiani poco più che animali.

L'incidente, come sempre, è di sconcertante banalità. Al lavoro a quota 975 c'è Antonio Iannetta, un giovanotto molisano appena addestrato a svolgere la mansione particolarmente delicata dell'"ingabbiatore". Parla un francese essenziale, forse fraintende una comunicazione, forse non viene capito via telefono dal collega in superficie che dà il comando di risalita della "gabbia", ossia il montacarichi. Un vagoncino carico di carbone sporge ancora per metà quando Iannetta, che lo sta spingendo nella "gabbia", lo sente muoversi verso l'alto. Non può fare nulla: come una ghigliottina il vagoncino trancia i cavi elettrici, salta la luce, si sprigionano scintille. Dopo pochi secondi scoppia l'incendio. Con le "gabbie" bloccate, i minatori non hanno scampo. Solo pochi, tra cui Iannetta, riescono miracolosamente a risalire. I soccorsi sono molto lenti. E' una strage.

Nel 1966 un grande inviato italiano, Igor Man della Stampa, scende nel pozzo della morte per raccontare cos'è stato fatto in dieci anni per migliorare le condizioni di lavoro: nulla, ci sono ancora i cavalli a trainare i vagoncini. Scrive: "In questo sprofondo lavorano ventisette italiani. (...) Ecco Angelo Milano, di Enna: a torso nudo, tutto nero, soltanto gli occhi e la bocca bianchi. "Gradite un po' di salute", e ci offre uno spicchio dell'arancia che sta sbucciando. (...) E' fatica antica, la loro, sempre la stessa; nella miniera di Marcinelle non ci sono macchine. Coricati sul fianco, o supini, aggrediscono la vena carbonifera con il sussultante calcio della pistola pneumatica premuto contro il ventre. Aperto il primo varco s'aiutano con la pala, con le mani. Compiuti cinquanta-sessanta metri d'avanzamento, spostano lo scivolo, abbattono i puntelli nello spazio già sfruttato, piantandone altri contro la bassa volta su cui premono millecento metri di roccia. I minatori lavorano a cottimo, facendo in media tre tonnellate di carbone al giorno ciascuno e ce ne sono capaci di cavarne quindici. Quasi tutti sono sposati e con figli. Ma sono silicotici da anni. Non esiste esperienza che possa aiutarli: può schiacciarli in qualsiasi momento il peso della montagna; può investirli, uccidendoli, un getto d'acqua o di gas. Sono soli nel cuore della terra".


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