Nella storia dei nostri centocinquant'anni di italiani ci sono anche molte pagine drammatiche, di quelle che vorremmo non avere mai scritto neanche solamente nel puro pensiero. Il 16 ottobre 1943 è a Roma un giorno terribile. Un migliaio di ebrei vengono prelevati dalle loro abitazioni nell'ex ghetto e deportati ad Auschwitz, senza una ragione, senza aver commesso alcuna colpa. Semplicemente perchè i tedeschi ancora presenti nella capitale li ritengono doppiamente responsabili. Dirà il maggiore Kappler che andavano puniti sia perchè italiani, e dunque traditori (l'armistizio era stato da poco firmato a Cassibile), sia perchè ebrei, e dunque secolari nemici della Germania.
Solo sedici di loro torneranno a casa alla fine della guerra, quindici uomini e una sola donna, per essere esatti. E' un dovere ricordare quanto è accaduto, cosa la "banalità del male" è stata capace di creare nel vuoto di valori reali: morte, distruzione, disumanizzazione, orrore incomparabile.
Giacomo Debenedetti ha dedicato all'evento il suo "16 ottobre 1943". Ne riportiamo un passo dalle ultime pagine, ogni commento qui è assolutamente superfluo, il dramma è assoluto, totale.
"Verso l’alba del lunedì, i razziati furono messi su autofurgoni e condotti alla stazione di Roma-Tiburtino, dove li stivarono su carri bestiame, che per tutta la mattina rimasero su un binario morto. Una ventina di tedeschi armati impedivano a chiunque di avvicinarsi al convoglio.
Alle ore 13,30 il treno fu dato in consegna al macchinista Quirino Zazza. Costui apprese quasi subito che nei carri bestiame "erano racchiusi" – così si esprime una sua relazione- "numerosi borghesi promiscui per sesso e per età, che poi gli risultarono appartenenti a razza ebraica".
Il treno si mosse alle 14. Una giovane che veniva da Milano per raggiungere i suoi parenti a Roma, racconta che a Fara Sabina (ma più probabilmente a Orte) incrociò il "treno piombato", da cui uscivano voci di purgatorio. Di là dalla grata di uno dei carri, le parve di riconoscere il viso di una bambina sua parente. Tentò di chiamarla, ma un altro viso si avvicinò alla grata, e le accennò di tacere. Questo invito al silenzio, a non tentare più di rimetterli nel consorzio umano, è l’ultima parola, l’ultimo segno di vita che ci sia giunto da loro.
Nei pressi di Orte, il treno trovò un semaforo chiuso e dovette fermarsi per una decina di minuti. "A richiesta dei viaggiatori invagonati"- è ancora il macchinista che parla - alcuni carri furono sbloccati perchè "chi ne avesse bisogno fosse andato per le funzioni corporali". Si verificarono alcuni tentativi di fuga, subito repressi con una nutrita sparatoria.
A Chiusi, altra breve fermata, per scaricare il cadavere di una vecchia, deceduta durante il viaggio. A Firenze il signor Zazza smonta, senza essere riuscito a parlare con nessuno di coloro a cui aveva fatto percorrere la prima tappa verso la deportazione. Cambiato il personale di servizio, il treno proseguì per Bologna.
Né il Vaticano, né la Croce Rossa, né la Svizzera, né altri stati neutrali sono riusciti ad avere notizie dei deportati. Si calcola che quelli del 16 ottobre ammontino a più di mille, ma certamente la cifra è inferiore al vero, perchè molte famiglie furono portate via al completo, senza che lasciassero traccia di sé, né parenti o amici che ne potessero segnalare la scomparsa".
Novembre 1944
Giacomo Debenedetti, op. cit. pp. 62-64.