Voglio cogliere la segnalazione dei nostri amici sardi del Centro di gravità permanente per ricordare la data dell'8 settembre con alcune testimonianze tratte da "Io sono l’ultimo. Lettere di partigiani italiani (pp. 332, euro 18), testo curato da Stefano Faure, Andrea Liparoto e Giacomo Papi, edito da Einaudi.
Non aggiungo nessuna introduzione, lasciamo che siano le parole della memoria a farsi ascoltare. Da sole.
«Ai ragazzi nelle scuole dico: - Guardate, sono rimasto solo io. Allora diventano piú interessati ancora. Io sono l'ultimo».
Marcello Masini «Catullo», Firenze, 1925, artigiano
«Ventisette anni dopo, una sera del 1971, sento suonare il campanello di casa. Era un tedesco. Dice che ha piacere di parlare con un comandante partigiano. Lo riconosco. E dopo un momento, gli dico: - Lei ha ucciso mio padre».
Carlo Varda «Charles», Chiomonte (Torino), 1925, ferroviere
«Alla mattina ho visto una cassa da morto. Allora mi hanno detto: - Guarda che dobbiamo farti il funerale. Era l'unico modo per portarmi all'ospedale. Avevo un bastoncino per alzare il coperchio. Ma ad Alpignano i tedeschi hanno fermato il carro funebre».
Cesare Mondon «Rino», Collegno (Torino), 1923
«Si chiamava Giambattista, ma il suo nome di battaglia era "Fifa", anche se era coraggiosissimo. È morto nel 1944, a ventitre anni. L'ho saputo sei mesi dopo, a primavera, quando la neve si sciolse sul Monte Caio e il corpo fu ritrovato. Gli porto ancora i fiori. Dev'essere stato importante per me, se mentre ne scrivo me lo rivedo davanti agli occhi. L'unico nostro bacio è stato d'addio».
Anita Malavasi «Laila», Reggio Emilia, 1921, studentessa
«Ai ragazzi dico questo. Pensate le cose impensabili. Si può sopravvivere a una guerra. Si può saltare un cancello alto alto con delle lance acuminate in cima e resistere a un tempo che vuole scambiare la giovinezza con la fame e la morte. Si può scappare dai campi di concentramento in Germania usando un filo di ferro. Si può ritornare a casa quando tutto sembra distrutto e perduto e ricominciare da capo. E sapere, sul treno di ritorno, con le macerie che passano dai finestrini, che a casa ti stanno aspettando tua moglie e tua figlia».
Ferruccio Mazza, Ferrara, 1921, operaio
«A novantanove anni, ogni tanto, tendo a cadere. Perdo l'equilibrio e cado. E va bene. Però questa è stata la mia vita e io l'ho vissuta intensamente e con entusiasmo, soffrendo, amando e lottando. E ho continuato a fare. Se no, come si fa?»
Giovanna Marturano, Roma, 1912, studentessa
«In bicicletta si farà un giro di Pisa lasciando una rosa sopra ogni targa. È sempre difficile trovare gente per le commemorazioni, perché da noi gli eccidi piú grandi sono avvenuti d'estate. Ma io credo che qualcuno verrà».
Giorgio Vecchiani «Lungo», Pisa, 1926, impiegato
Nessun commento:
Posta un commento