INGANNO A STELLE E STRISCE
Pasquale Marchese
“La beffa di Lucky Luciano. Lo sbarco Alleato in Sicilia”.
Coppola editore, Trapani, Settembre 2010, € 18.
recensione di Santo Lombino
Uno degli eventi più raccontati della seconda guerra mondiale, almeno in Italia, ma non solo, è lo sbarco in Sicilia, nel luglio 1943 di quasi mezzo milione di soldati inglesi e statunitensi, con tremila navi e 1.800 cannoni, provenienti dalle coste nord-africane. Sbarco che, come è noto, ebbe come effetto a breve termine, il crollo del regime fascista, già messo a dura prova dallo svolgimento del conflitto, rivelatosi disastroso per le truppe italiane in Europa e fuori.
Sugli avvenimenti che partono dalle giornate di luglio e agosto e coprono i due anni successivi, sono stati scritti decine e decine di libri, e negli ultimi anni pubblicate raccolte di testimonianze orali di abitanti della Sicilia meridionale che hanno visto, sentito, fatto, subito. Ma oltre che nella storia militare e civile, quei fatti sono stati considerati importanti anche nella storia della Sicilia contemporanea e in numerose ricostruzioni della storia della mafia o Cosa Nostra, già all’epoca presente oltreoceano con i suo traffici e i suoi metodi criminali in un rapporto osmotico tra le due sponde dell’Atlantico.
Molti storici e giornalisti hanno attribuito ai mafiosi siculo-americani un grosso contributo al successo del’esercito all’Alleato nelle operazioni di approdo e nei successivi combattimenti sul suolo dell’isola contr o le truppe nazi-fasciste allora presenti. Tale aiuto avrebbe avuto il primo input in un istituto penitenziario degli Stati Uniti, dove era rinchiuso il gangster Salvatore Lucania meglio conosciuto come Lucy Luciano, partito a nove anni da Lercara Friddi (Palermo), leader di una multinazionale del crimine e degli affari. Costui avrebbe promesso la collaborazione della sua rete nella guerra contro Germania Giappone e Italia.
Come è noto, alla fine del conflitto Luciano fu estradato dagli Usa in Italia, vivendo poi in Campania fino alla morte, avvenuta nel 1962. Molti studiosi e osservatori politici hanno osservato come in molti comuni dela Sicilia (da Villalba a Bolognetta a Palermo), diversi esponenti delle cosche mafiose sono assunti al ruolo di sindaci con l’avallo dei liberatori anglo-americani. Il collegamento tra quanto avveniva nella prigione americana e quanto l‘amministrazione civile delle truppe alleate, guidata dal colonnello Charles Poletti faceva è sembrato a tutti evidente di per sé.
Pasquale Marchese agrigentino ma vissuto in Toscana e a Palermo tra libri e biblioteche, ha esamiato con acume filologico e spirito critico tutti gli scritti prodotti dagli studiosi e la documentazione presente negli Stai Uniti ed in Italia sottoponendo ad un feroce “rasoio di Ockam” tutti i “si dice, si racconta, pare” finora pubblicati su giornali riviste libri e spesso frutto di semplice copia-e-incolla da opere precedenti, in prmo luogo dai lavori di Michele Pantaleone, coraggioso concittadino del celebre Calogero Vizzini da Villalba indicato come capo della mafia siciliana dell’epoca. Marchese fa, n sostanza, quello che ogni storico serio dovrebbe fare: non fidarsi delle opinioni correnti, fondarsi sulle fonti e sui documenti, esaminare l’attendibilità e la validità delle une e degli altri, passare al setaccio (’U crivu dei nostri contadini) le notizie tramandate di bocca in bocca, la cui verità non cresce solo perché tanti le ripetono.
Un lavoro difficile e spesso improbo, ma l’unico capace di farci avvicinare alla realtà, pur sapendo che non esiste l’oggettività assoluta del “fatto in sé”. Essere revisionisti, nel senso di continuare a ricercare senza sentirsi mai pienamente “contenti”, è un dovere per chiunque voglia occuparsi seriamente di storia come scienza e non come catena di “relata refero”, cioè riferisco quanto mi hanno raccontato.
A quali conclusioni arriva Marchese applicando tale metodo? Anzitutto, egli ritiene che tutto sia nato da una sagace mossa dell’avvocato di Luciano, tendente a far acquisire meriti al suo assistito nei confronti del governo americano, preparando il terreno per farlo uscire di galera appena possibile. Come fa spesso la mafia, è stato creato ad arte il pericolo di attentati tedeschi nel porto d New York perché esponenti del governo potessero richiedere protezione a Cosa nostra. In secondo luogo viene smontato i teorema dell’intervento decisivo della mafia intercontinentale nella facilitazione dello sbarco alleato a Gela e Licata e ne successivi scontri per cacciare indietro fascisti e nazisti nelle varie province siciliane: nessuna testimonianza, nessun elemento concreto sul campo corrobora tale tesi. Se Lucky Luciano o chi per lui avesse diretto dal carcere e da oltre oceano forze organizzate della criminalità siciliana per collaborare con un esercito così potente e armato, qualche traccia o testimonianza dei presenti ai fatti non sarebbe rimasta?
In terzo luogo, la nomina di sindaci di provenienza mafiosa in molti comuni non sarebbe stata una linea predeterminata dell’Amgot, in quanto vennero nominate anche personalità di rilievo purché antifasciste e a livello regionale Francesco Musotto, noto oppositore della mafia e del fascismo. Il colonnello Charles Poletti, di salda fede democratica, non era affatto favorevole alla collaborazione con la criminalità organizzata, ma ha badato ad una convivenza pacifica di tutte le forze sociali e politiche per garantire all’esercito alleato che doveva affrontare i nazifascisti sul continente una situazione il più possibile tranquilla alle spalle. In ogni paese, quindi, veniva nominata una persona contraria al fascismo, che garantisse la pace sociale: e dato che molti capimafia erano stati perseguitati dal fascismo, tanti di loro emersero dal sonno in cui erano stati durante il ventennio. Ma molti sindaci che gli Alleati misero a capo dei municipi, sostiene il nostro autore, non erano affatto mafiosi. Il sindaco di Palermo, Lucio Tasca Bordonaro, era sì un sostenitore del latifondo, secondo Marchese, ma non era vicino a “Cosa Nostra”.
Inoltre, la voce presente in molti libri, che vuole il mafioso Vito Genovese, già amico di Mussolini, interprete di Poletti sono infondate, sostiene Marchese, in quanto Poletti non aveva bisogno di interpreti comprendendo bene l’italiano ed in quanto il colonnello operò a Palermo, a Napoli e a Roma e non a Nola, dove si muoveva Genovese. Secondo Marchese, il rapporto stretto tra mafia e potere politico italiano si ebbe solo a partire dalla fine della guerra e a partire dalla divisione del mondo in due blocchi contrapposti, con la scelta della mafia e della parte preponderante della democrazia cristiana di far parte e marciare uniti, ciascuna anche per propri specifici interessi, all’interno dello stesso fronte filo-occidentale. Sarebbe sbagliato, a suo dire, anticipare agli anni della lotta antifascista e antinazista ciò che si realizzò soltanto dopo, negli anni della guerra fredda, della “cortina di ferro”, della feroce repressione “a due teste” del movimento contadino. Allora sì che gli Stati uniti e i servizi segreti considerarono la presenza mafiosa un utile elemento per contrastare la minaccia dell’arrivo dei comunisti al potere in Italia.
Grazie a Santo Lombino per questa segnalazione. Al di là delle notizie che si accettano come certe solo perchè ripetute tante volte e successivamente trasmesse col passaparola, risulta invece fortemente determinante, ai fini dell'accertamento della storia (ovviamente per quanto allo studioso è possibile fare),l'applicazione del metodo del controllo documentario rigoroso. Se non c'è documento non può esservi conferma. Anche la testimonianza orale, in questa prospettiva di ricerca, va dunque salvaguardata ma trattata con molta cautela: essa "ci dice" comunque qualcosa, non sempre tuttavia riporta delle verità storiche.
RispondiEliminaScrive Santo Lombino:
RispondiElimina"Con strana coincidenza. Il 28 giugno è uscita una intervista su REPUBBLICA PALERMO allo storico John Dickie dal titolo Alle origini della mafia.
Alla domanda del giornalista Enrico del Mercato sullo sbarco degli alleati. "Gli Americani si avvalsero dei boss per invadere la Sicilia?, la risposta dello storico è:
"Gli Stati Uniti non sfruttarono la mafia per lo sbarco: era un'operazione troppo grande per affidarla ai boss. E' dopo lo sbarco che entra in gioco la mafia che usa tutti i suoi metodi per infiltrare l'amministrazione alleata. Il comando alleato a un certo punto si arrende: "Abbiamo cercato di cacciare i sindaci mafiosi, ma nessuno voleva candidarsi al loro posto".
Da parte mia aggiungo che, se non avessi letto il libro di Marchese, sarei anch'io rimasto un pò perplesso a leggere questa risposta!
Ovviamente, la ricerca continua..."