lunedì 16 luglio 2012

La storia scritta da una donna: La ragazza del secolo scorso


“Ognuno avrebbe fatto la sua strada e quando ne leggo le ricostruzioni tutto mi pare vero e sfocato, perché per un paio d’anni si fu assieme, senza generazioni e gerarchie, ci conoscevamo tutti, tutto si stava facendo, e anche i disaccordi avevano un sale.” 

"(le tesi del 1957) ammettevano il disastro all'est, ma da noi si doveva e poteva cambiare, si aprivano le finestre, si respirava. Eravamo il caso Italia, dove il fscismo, perseguitandole tutte, aveva impedito alle diverse anime della sinistra di dividersi come altrove e ci eravamo innestati con intelligenza nel dopoguerra. e la Resistenza ci aveva fatto gente nuova, per la quale non era un trauma sentirsi dire che il socialismo passava in ogni paese per una propria strada" p.191

"Avevamo davanti la nostra gente, che la migrazione dalle Venezie e dal Mezzogiorno gonfiava come un'onda- arrivavano dai treni del sud, quelli che viaggiano lenti nella notte, fermandosi a ogni città con uno scossone e approdando al mattino alla stazione centrale di Milano o a Porta Nuova a Torino, dove vomitavano valigie di cartone e gente sfinita da giorni di spostamenti tra corriera, trenino locale e finalmente i vagoni del nord. Non era difficile trovare lavoro a Milano, ognuno era tirato su da un altro, parente o conoscente arrivato prima(...)" pp.196-197

"Nell'autunno del 1968 gli studenti si ritrovarono nelle loro sedi, decisi a logorare le università più che a riempire le strade. Non avevano torto. Misero in causa i tempi e i modi dell'insegnamento e i docenti non seppero come farvi fronte(...) Nell'inverno del 1969 cominciarono a organizzarsi i gruppi che si definirono extraparlamentari. Erano nati dal sensato bisogno di darsi un'analisi, una tesi e una linea di azione non limitate alle manifestazioni" p.364

Sono queste solo alcune riflessioni sul nostro Novecento tratte dal libro che ho appena finito di leggere, La ragazza del secolo scorso, e che non posso non consigliare per lo spaccato sociale, culturale ed ideologico dell'Italia del dopoguerra e delle sue relazioni con il resto del mondo che ci consegna.
Scritto nel 2005 da Rossana Rossanda, partigiana, intellettuale, dirigente dle PCI fino al 1969, poi radiata per le posizioni critiche nei confronti del partito e fondatrice del quotidiano "il manifesto", il testo autobiografico è una ricostruzione di rara efficacia storica e narrativa, anche se l'autrice precisa:  "Questo non è un libro di storia". Tutti gli eventi che hanno attraversato quegli anni sono riportati sotto una duplice luce, quasi bergsoniana:  esterna  (il fatto come riportato dalle cronache e dal partito ) ed interna (nel vissuto della Rossanda, nella custodia "reumatica" della sua memoria), con l'effetto di una costruzione intensa che chiede il tempo lento della lettura puntuale, poichè su nulla è possibile sorvolare, tacere, ignorare se si vuole intendere la maturazione di un pensiero e la sua posizione critica. Quello che siamo stati, si potrebbe dire, quello che avremmo voluto essere, e quello che infine siamo diventati.


Grazia Casagrande (  http://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/408/cafelib.htm) così lo presenta:
"La prima parte vede una ragazza borghese, figlia di una famiglia intelligente, dover affrontare il primo dei tanti traslochi della sua vita, da Pola a Venezia. Cambiamenti radicali, perdita di alcuni agi, ma nessuna privazione vissuta come tale. Il rapporto con la sorella, da cui solo due anni la dividono, appare fin da subito forte e solidale, la madre è una figura solare, il padre è colui con cui condividere fin da giovanissima la passione per la lettura e una certa sintonia di carattere. Da Venezia a Milano, dall’infanzia all’adolescenza, e intanto fuori da casa il fascismo: ma lei, come probabilmente tante sue coetanee, non avvertono bene che cosa ciò significhi, anche per una certa volontà, forse neppure consapevole, della famiglia di tenere lontano il privato dalla volgarità del pubblico.

Questa inconsapevolezza sarà poi l’elemento che domina anche alcuni momenti cruciali della storia italiana che sfiorano appena la liceale Rossana. L’assenza improvvisa della compagna ebrea non suscita domande, la guerra di Spagna così come è riportata dalla stampa crea un certo orrore per quei “rossi” anticlericali e cruenti, insomma l’approdo all’università la vede piena di stimoli intellettuali, ma del tutto priva di quella che chiameremo coscienza politica. L’ammirazione per alcuni docenti, e in particolare per Banfi, il passaggio in clandestinità di Marchesi, l’improvvisa scoperta del comunismo dopo un fine settimana passato a leggere in modo forsennato testi cruciali consigliati da Banfi stesso, il mettersi a disposizione della Resistenza: passaggi straordinari che coinvolgono il lettore facendogli capire molto di più di un periodo storico e il tutto presentato con la passione, la semplicità, l’incoscienza dell’età in cui era stato vissuto.

Le pagine che raccontano, senza alcuna nota trionfale o eroica, quegli anni drammatici e non privi di contraddizioni, così come quelle che parlano del dopoguerra, dell’adesione al Partito Comunista e dell’attività dirigente al suo interno, non dimenticano mai le dinamiche familiari e private in un perfetto equilibrio (così come avviene nella vita) tra le varie componenti di una persona, gli affetti, gli interessi, gli errori e le ambiguità. Credo che proprio questa sincerità austera sia una delle note di merito del libro che, e passiamo agli anni successivi e al sempre maggior impegno nel Partito, raccontando la storia di una singola vita, permette di ripercorrere anni fondamentali della storia recente non solo italiana.

Un’altra riflessione spontanea: l’importanza nella società del Pci, il suo essere luogo di idee, d’incontro e di crescita, al di là dei ruoli specifici, “fra la fine degli anni cinquanta e nei primi sessanta ci fu un veloce cambiare delle idee e perfino delle cose attorno a noi. Era il boom, la coesistenza, la nuova frontiera, la fine dei colonialismi – il tutto accompagnato da un crescere della sinistra e della buona coscienza”.

La passione del fare politica: “Mai ci si realizza come assieme agli altri, cui con naturalezza si spiega come fare – dev’essere il temibile materno, fabbricare le creature, nutrirle, insegnargli a camminare, svezzarle malvolentieri. Mai si è meno sacrificati che in un collettivo che hai scelto e cui ti credi necessaria.”

E poi il Sessantotto: “Del maggio francese si dovrebbe parlare con serietà, quasi solennemente, perché sia chi lo apprezza sia chi lo detesta non nega che abbia costituito una cesura storica”.

L’ultima parte, quella della frattura dal Partito, non è dominata da sentimenti di rancore o di rabbia, c’è un profondo rispetto, una stima (in particolare per Ingrao e Berlinguer) che la differenza frontale di posizioni e di scelte non incrina, così come anche dall’altra parte non vi fu nessuna volontà di discredito nei confronti del gruppo de il manifesto. Uno stile e una grandezza morale insomma che oggi profondamente si rimpiange.

Il prodotto e la causa scatenante quella radiazione sono tuttora un importante riferimento politico-culturale, luogo di dibattito e riflessione, il manifesto nasce dalla speranza e dall’aspirazione di farsi voce, luogo e crogiuolo di una nuova cultura di sinistra: “Speravamo di essere il ponte fra quelle idee giovani e la saggezza della vecchia sinistra, che aveva avuto le sue ore di gloria. Non funzionò. Ma questa è un’altra storia”.

Appunto, inizia da lì la storia di questo nuovo secolo per tanti versi così disastrato.

 





5 commenti:

  1. Ecco le persone che mancano alla Sinistra odierna!

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  3. Mi associo ai complimenti espressi dall'anonimo WD.

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  4. Thanks to everyone for the kind messages, I hope to still have your help to grow this area of ​​communication :)

    Because it's true, as they said
    Horderlin and Heidegger...
    (sorry but this has to be said in Italian!)

    "Molto ha esperito l’uomo
    Molti celesti ha nominato
    da quando siamo un colloquio
    e possiamo ascoltarci l’un l’altro"

    Friedrich Hölderlin


    «Noi siamo un colloquio. L’essere dell’uomo si fonda nel linguaggio (Sprache); ma questo accade (geschieht) autenticamente solo nel colloquio (Gesprächt)»; e ancora: «Ma che cosa significa allora un ‘colloquio’? Evidentemente il parlare insieme di qualcosa. E’ in tal modo che il parlare rende possibile l’incontro. Ma Hölderlin dice: ‘da quando siamo un colloquio e possiamo ascoltarci l’un altro’. Il poter ascoltare non è una conseguenza che derivi dal parlare insieme, ma ne è, piuttosto, al contrario, il presupposto»

    M.Heidegger, La poesia di Hölderlin, Adelphi 1988

    Thanks again!

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  5. Cara Grazia,
    a differenza di me riesci ad esprimerti sempre con “grazia”!
    Per questo è bello stare in ascolto di te.
    Un caro saluto.
    Franco

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